domenica 25 settembre 2016

Giuseppe GIRIODI


Non è facile, anche per chi la storia della Juventus conosce abbastanza bene – scrive Alberto Fasano su “Hurrà Juventus” del settembre 1981 – rievocare una figura come quella di Giriodi, recentemente scomparso alla veneranda età di 87 anni. Ma qualcosa di questo integerrimo e caparbio piemontese sapevamo; altri curiosi particolari li abbiamo appresi da Maccagno, il caro amico che rappresenta al momento, insieme a Paulucci, Novo e Masera, il depositario storico delle vicende juventine appartenenti agli inizi del secolo.
Sfogliando le mie scartoffie dell’archivio bianconero, ho trovato per la prima volta il nome di Giriodi nel lontano 1912; e colgo l’occasione per segnalare immediatamente la lunghissima carriera di questo giocatore che indosso l’ultima sua maglia bianconera a Bologna l’8 marzo 1925: ben 14 anni di attività e di affettuosa solidarietà ai colori sociali. Nella gara di esordio, quando aveva appena compiuto 18 anni, ebbe come avversari i famosi campioni del Casale: Barbesino, Mattea, Gallina, Varese, Parodi e compagni. Era il 10 novembre del 1912. Se passiamo a esaminare la formazione del Bologna nell’ultima partita giocata da Giriodi, troviamo nomi altrettanto importanti, come quelli di Schiavio, Della Valle, Perin, Genovesi, Gianni e Giordani. Una degnissima cornice, dunque, per il commiato di Giriodi dal mondo del calcio.
Era nato nel 1894. Aveva due fratelli, uno laureato in Economia e Commercio, l’altro deceduto in giovane età, appena 16 anni quando frequentava il secondo anno all’lstituto Tecnico Sommeiller. Giriodi, tanto per dimostrare le sue affettuose... preferenze per i colori juventini, sposò la signorina Marchis, sorella di due baldi giovanotti che già facevano parte delle riserve della Juventus. Dal matrimonio nacque una figlia che, a suo tempo, si innamorò di un ambizioso dirigente della Fiat. Ma Giriodi era titolare di un avviatissimo studio notarile e fece presente al pretendente che sarebbe stato meglio se invece di un dirigente-Fiat si fosse trattato di un notaio. Ebbene il signor Crosio non si perse d’animo, si mise nuovamente a studiare e prese il suo bravo diploma da notaio: così poté non solo sposare la figlia di Giriodi, ma rilevarne anche lo studio notarile.
Ottimo come notaio, ottimo come giocatore di calcio. Iniziò come attaccante, mostrandosi abile in qualsiasi ruolo della prima linea; ma forse si distinse maggiormente quando venne utilizzato come mezz’ala destra, in una prima linea comprendente Grabbi (suo grandissimo amico) all’ala destra, Pio Ferraris centrattacco, Valerio Bona interno sinistro e Marchi I (detto «velivolo») all’ala sinistra. Questa formazione, della quale facevano parte anche il portiere Giacone e i famosi terzini Novo e Bruna, prese parte al campionato 1919-1920.
Altri importanti giocatori che divisero con Giriodi gioie e delusioni di quell’epoca furono Masera, Varalda, Marchi II, Gallina; e poi Bigatto, Sesia, Combi, Gili, Sereno, Gallo, Barale; e poi, ancora, Rosetta, Munerati, Monticone, Gianfardoni, Viola, Pastore, alla vigilia della stagione 1925-1926 conclusasi con la conquista dello scudetto.
Dotato di una tecnica eccellente, buon palleggiatore, atleta intelligente e buon tiratore, si può dire che Giriodi avesse solo una lacuna: la velocità. Giocava, infatti, con studiata lentezza: voleva ragionare ogni pallone e raramente ne sprecava uno. Era alto e quindi buon colpitore di testa. A proposito della testa: Giriodi lo potevi individuare in ogni parte del campo per il colore biondo-rossastro dei suoi capelli. E gli amici, proprio per quei capelli rossi, lo chiamavano «testa ‘nvisca››.
Fu allievo ufficiale (e in quel periodo, per non incorrere in sanzioni, figurava nella formazione juventina sotto il nome di Laviosa...), e prese parte alla grande guerra 1915-18 come ufficiale degli alpini. Era un duro, un caparbio, ma un perfetto gentiluomo. Quanti lo conobbero ebbero sempre grande stima in Giriodi, notaio e giocatore della Juventus.


VLADIMIRO CAMINITI DAL SUO LIBRO “JUVENTUS 70”
Geppe Giriodi, eclettico giocatore della Juventus che nel campionato edizione 1914 finisce quarta assoluta, è sottotenente degli alpini... Naturalmente è partito volontario. Ha diciotto anni.
Sono i diciotto anni di un’Italia lontana. Non propriamente remota come testimoniano genitori e nonni, ma rara come i baffi di una volta, che brillavano di virile fierezza per un’Italia con la maiuscola che soffriva per esserlo, come oggi soffrono di nostalgia Vittorio Pozzo e Geppe Giriodi. Gli alpini...
Il notaio Geppe Giriodi accoglie il cronista nel suo studio.
Dapprima lo fa aspettare in anticamera una mezzoretta; e nell’anticamera ci arriva la voce baritonale, ben costruita, discretamente ampollosa del notaio Giriodi che sta strapazzando la sua segretaria.
Nella penombra dell’anticamera ogni cosa vive di questa voce; una presenza immanente; mi sembra che ogni mio movimento possa essere misteriosamente captato. Sto seduto in poltrona, un po’ indispettito, un po’ incuriosito, un po’ intimidito. Ma immobile.
E finalmente: «Si può accomodare...» La signorina, un tipo di segretaria all’antica, con molti angoli, mi fa strada. Eccomi nello studio dell’eroe bianconero, Giriodi ex capitano degli alpini di un’Italia che si fabbricava combattendo all’arma bianca, e volavano stampelle, e le granate nemiche spaccavano in due l’eroe, ma non il suo ideale.
Non si capacita. Seduto alla scrivania mi squadra, mi pesa. Debbo pesare molto poco al suo occhio vagamente ceruleo che luccica come la pelata. Le serrande sono abbassate; fuori c’è un pallido sole, dentro c’è la penombra... Il notaio ha lineamenti duri, accigliati.
«Cosa vuole sapere? Che è venuto a fare? Io non voglio occuparmi più di niente... Io non debbo nulla a nessuno, e nessuno deve niente a me... Non cerco gli altri, non cercate me...»
È un cicchettone. Lo subisco con umiltà.
«Ogni domenica mi faccio settecento metri di dislivello, lo sa? Ho settantadue anni, le pare che li dimostri?»
Si leva in piedi. Diritto, anche lui pieno di angoli. È un vecchio rubizzo, il ritratto della salute alpina e incavolata. Ripiomba sulla scrivania, mi squadra.
«No, no, non ci siamo... Io appartengo a un mondo che ritrovo soltanto lassù, questo non è il mondo vero, quello giusto, voglio dire... Questo è sbagliato, lassù si sta in pace, non ci sono uomini vili, che servono, che si compromettono, oggi tutti servono e si compromettono... Io non mi sono mai compromesso...»
Tacciamo.
«E poi, come posso ricordare? Sono cose di un’epoca remotissima, ero stato uno dei primi al corso allievi ufficiali. Il 1° gennaio 1913 ero già sotto le armi, nel marzo 1914 ho finito il servizio militare, ma scoppia la guerra e vado volontario... Ottobre 1919 sono ferito a Montenero...»
«E la Juventus?» diciamo.
«La Juventus? Era essenzialmente studentesca e infarcita di letture patriottiche. Chi ha tirato nella Juventus l’elemento studentesco è stato Dalmazzo, Benigno Dalmazzo, morto in guerra... Io, Dalmazzo e Curto abbiamo formato le prime squadre di boys... In quell’epoca pagavamo di tasca nostra, sei lire all’anno per essere soci... Scarpe, pantaloni, maglie tutto ci pagavamo. Era vero dilettantismo...»
S’interrompe. Il suo occhio è più ceruleo che mai.
«Non vado più alla Juventus da quella volta che la vidi perdere... La squadra del mio cuore è la Juventus...»
«Avrà qualche suo ricordo? Giornali dell’epoca?...»
«Oggi il calcio è diventato una cosa importante, allora nei giornali c’erano angolini piccolissimi riservati al calcio... Con la nostra quota di soci avevamo diritto ad assistere alle partite dai posti di parterre... In campo ci battevamo. Non guardavamo il pericolo... A Genova contro la Sampierdarenese una volta mi buscai un calcio all’occhio destro... A momenti ci rimetto l’occhio... Ho vomitato anche l’anima da Genova a Torino... Quando ero sotto le armi scappavo per andare a giocare... Che Juve quella, e Bona che capitano! Una grinta furiosa, ma anche il rispetto del valore avversario, del regolamento... C’è sempre una giustizia superiore... Il referee veniva rispettato... Io ero riflessivo, Pio Ferraris era tutto fuoco... Una volta ho preso uno schiaffo da Soldero del Milan... Uno schiaffone...»
Giriodi ha ritrovato qualcosa. Che cos’è? Uno schiaffone. Pure uno schiaffone può essere rimpianto... La pelle della faccia di Giriodi è pelle di montanaro. Non la scalfiscono i ghiaccioli, non la offende il gelo. A settantadue anni tutte le domeniche settecento metri di dislivello, ce lo siamo scordati? No. È un vecchio rubizzo e ferrigno. Non si sa esattamente che tipo d’uomo sia, che uomini fossero quegli alpini, dentro le nicchie scavate nella roccia, che difendevano i confini della patria, pallidi magri spettrali ma uomini...
«Lei vuole sapere come reagii allo schiaffone?»
Mi guarda. Sorride. È un trionfo alpino questo sorriso di Giriodi.
«Riuscii a dominarmi, mi irrigidii sull’attenti alzando il braccio per richiamare l’attenzione del referee... Soldero era un piccolotto, lo avrei potuto stendere, ma nella vita è importante sapersi controllare, quando il giudizio non spetta a te... Ricordo una volta che Bona fece annullare un calcio di rigore già accordato...»
«Dall’arbitro?»
«L’arbitro aveva interpellato il linesman...»
«Linesman?»
«Oggi si dice segnalinee... Erano dubitosi... Bona che era stato mandato per le terre disse che era tutta colpa sua... Insomma, il rigore accordato fu ritirato... Ora mi ricordo, si giocava a Milano contro l’Unione Milanese; mi pare che finì in pareggio...»
«In quale campionato?»
«Doveva essere nel 1914... Fu d’inverno... Di preciso ricordo quando come capitano degli alpini avevamo formato la squadra del reggimento e giocavamo e vincevamo tutte le partite... Ne vincemmo sette di seguito... Soltanto l’Alessandria riuscì a batterci. Ma questo successe dopo, era già finita la guerra... Quello che posso ricordare io non conta niente, non ha importanza, non sono stato nessuno, un giocatore come me oggi tecnicamente giocherebbe in terza serie, ma era lo spirito che contava, quella Juventus aveva volontà, irruenza, chi batteva la Juventus se lo era meritato, erano tempi puliti, onesti, questo voglio dire. Oggi tutto è cambiato... Ed io non voglio sentire di questi tempi, tutti sono compromessi, nessuno è libero di pensare quel che vuole, io ho mantenuto la mia libertà, non debbo niente a nessuno, domenica mi sono fatto settecento metri di dislivello, ho settantadue anni, è un piacere sentire il fisico che risponde, tutto come allora, quando ero capitano degli alpini...».
Il papà di Geppe Giriodi era professore di matematica e non apprezzava la attività calcistica del figlio. Quelli che al calcio danno un valore affatto matematico sono serviti. Non soltanto professori di greco e latino anche i matematici dissentono del pedestre football. Che però è già, nel 1914, un fatto popolare e passionale.
Il notaio si accorse della mia esistenza dopo quella serie di cicchettoni al mondo cui appartenevo: il suo occhio ceruleo cominciò a brillare di luce riflessa. Avendogli detto che ero siciliano pronunziò nella penombra gelosa del suo studio, un panegirico dell’isola e dei suoi figli.
«Ci sono stato, ci sono stato con mia moglie, formidabile terra, ma mi creda non vale i settecento metri di dislivello che mi faccio tutte le domeniche…».
Mi ha dato quattro quadernetti.
Raccontano dell’epoca eroica della Juventus. Su ogni copertina l’emblema bianconero. Contengono ritagli de La Gazzetta dello Sport, La Stampa Sportiva e altri giornali dell’epoca. Riguardano la rinascita bianconera dopo la paura del 1913 con una serie di vittorie fondamentali.
«Mi scusi se tengo le serrande abbassate; questa luce non mi piace, è la luce sporca della città… La luce della montagna è pura e illibata, come le stelle e la neve, ma io le sembrerò un matto… Voi giovani di oggi non capite questi discorsi, già vi divertite diversamente dai nostri tempi…».
Oggi beatles per le strade e uragani di musica ye ye. Il vuoto degli ideali, la disperazione di Marylin che si ammazza per troppo amore e denaro e grattacieli e smog e ululato di traffici. Lanciati nelle auto si campa e si muore tra un’autostrada e l’altra. Una coppa di champagne, un dimenamento e un urlo. Questo il mondo d’oggi, la gioventù d’oggi. È l’opinione di Giriodi, al quale lo spettacolo della gioventù capellona non dice niente; non dice francamente molto nemmeno a noi, ma c’è, e non si può ignorare, propone suoi problemi. Un vuoto da riempire, in tutti gli istanti.
Non era così all’epoca di Giriodi giocatore.

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