venerdì 26 maggio 2017

Guido ONOR


«Vedevi milioncini, non miliardi – racconta ad Andrea Aloi sul “Guerin Sportivo” del 21-27 marzo 2001–. Si lavorava come disperati e chi non aveva la passione, andava a ramengo. C’erano giocatori incredibili, io ho esordito con la Juve, a Mantova, nel gennaio del ‘68, perché Salvadore aveva la febbre a trentanove. Bene: Sandro voleva partire lo stesso, Heriberto Herrera ci mise del bello e del buono per convincerlo a restare a casa. Certi calciatori sarebbero scesi in campo anche storpi, zoppi. Non esagero: a quei tempi lì un Edmundo si sarebbe preso dei gran calci in culo, dopo dieci minuti Heriberto lo avrebbe appeso all’attaccapanni». Già. Ma Edmundo è un capitale, la bilancia pende troppo dalla parte del valore, non dei valori, e molto resta impunito.
Guido Onor, terzino multifunzione dal volo frenato in A e lunghissimo in B e C, è stato un onesto operaio nel calcio di una generazione e mezzo fa, marcature a uomo, gioco largo sulle fasce, niente zona, additivi conosciuti zero, tranne il muro: «Ora si privilegia la classe, sei scelto da una squadra importante in base alla tecnica che possiedi, ai tempi miei contava il fisico possente: prima il fisico, sulla tecnica si lavorava dopo. Quando sono arrivato alla Juve sei mesi interi li ho passati davanti al muro, tocco alla palla di destro, tocco di sinistro, gli stop. Ore e ore. L’ho fatto io, l’han fatto Gentile, Cabrini. Il Trap è un altro cagnaccio: “o vieni fuori sudando o ti stronco”, un tipo così. Per me questo vuol dire amore per lo sport, mica c’era spazio per le fighette e per cose che a leggerle sui giornali fanno rabbrividire, tutte queste medicine, la struttura medica. A noi davano gran vitamine. Mai una puntura. Un massaggiatore bastava e avanzava».
Campionato ‘67-68 e Juve laboriosa, “metalmeccanica”. Il massaggiatore in questione è Desiderio Sarroglia, una colonna, il direttore sportivo Allodi, il presidente Vittore Catella, «bel personaggio, uno che non si esponeva e faceva».
In panchina il paraguaiano Heriberto Herrera, capo-manipolo fanatico della preparazione atletica, bravo a spremere l’anno precedente uno scudetto da uomini non proprio di vertice. Onor ha diciannove anni, per due ha giocato in prima squadra nell’Arona, in provincia di Novara, anche se non aveva l’età: «Pur di mandarmi in campo la società pagava le multe. Ero un velocista, giocavo d’anticipo, abbastanza tecnico per il ruolo di difensore. Aurelio Milani, l’allenatore della prima squadra, ex centravanti dell’Inter, mi aveva notato tra i ragazzini dell’Arona e fatto allenare e quindi giocare coi grandi. Ero stato convocato nella Nazionale Dilettanti, la Juve mi vide al campo Ruffini, credo Rabitti, un talent scout bravissimo e feci ‘sto passaggio repentino. Provino, campionato De Martino, cioè quello delle riserve, e due presenze in A, a Mantova e un mese dopo contro il Bologna».
Finirà terza quella Juve, dietro il Milan scudettato e il Napoli di Zoff, Canè, Juliano, Altafini, guidato da Pesaola. «Un gruppo. Eravamo soprattutto un gruppo, molto unito, micidiale. Nessuno andava d’accordo con Heriberto, ma lo rispettavano. Zigoni, l’estroso della compagnia, un giorno gli disse: “Mister, lei di calcio non capisce niente”. Allora Herrera, senza fare una piega gli rispose: “Può darsi, a ogni modo lei con me può fare anche due partite di fila, senza di me è un uomo morto”. In effetti, Zigo a Verona si è spento».
Spuntare la terza piazza con Adolfo Gori, Roveta, Sacco, Menichelli, centravanti De Paoli, ha il profumo d’impresa. Squadra autarchica la Juve ‘67-68, a parte i “vecchi” Del Sol e Cinesinho, impreziosita da Roger Magnusson, lo svedese, appena acquistato e che giocava solo in Coppa perché le frontiere dopo il disastro della Corea nel ‘66 erano ancora chiuse. Terzi in campionato e semifinalisti in Coppa Campioni, battuti dal Benfica. Meglio Coramini di Sivori? «Mi raccontarono che Heriberto litigava sempre con Omar. Era un preparatore atletico formidabile, si occupava direttamente di tutto, pretendeva che nessuno stesse fermo, il famoso “movimiento” e figurati, venne alla Juve nel ‘64-65 e Sivori gli disse: “Quando gli altri giocatori sapranno fare quello che faccio io, mi metterò a correre”. Normale che se ne fosse andato. Heriberto era un uomo tutto di un pezzo, esigente. Ci invitava a casa sua la sera per cena e la mattina seguente ci metteva sulla bilancia prima dell’allenamento: se avevi solo mezzo chilo di troppo, ti martellava. È stato lui a lanciarmi, invece Giancarlo Bercellino, il fratello di Silvino che intanto era andato al Palermo, mi faceva da chioccia, lui era di Gattinara, delle mie parti. Io ero il più piccolo e un giovane in quell’ambiente si sentiva protetto. Sono trentatré anni che manco dalla Juve e ogni Natale mi mandano gli auguri. Tornato ad Arona ho fatto il visionatore per la Juve».
Due lampi in A precedono una serie sterminata di partite al piano di sotto. Nel ‘68-69 alla Lazio, due anni al Monza di Radice (e convocazione nella Nazionale B), Livorno, Mantova nel ‘72-73 dove Guido rivede Leoncini e Roveta, gioca con Fernando Viola, centrocampista ex Juve, scomparso da poco in un incidente. E, in dirittura d’arrivo, cinque anni a Messina in C: «Con Scoglio, un personaggio unico, un innovatore. Voleva che la palla venisse buttata negli spazi vuoti, preparava nel dettaglio le partite, dalle punizioni agli schemi, studiava le caratteristiche principali dei giocatori avversari. Un conoscitore del calcio, il più colto che ho conosciuto, peccato non abbia saputo vendersi bene. Messina è stato un periodo meraviglioso, nel meridione se ti prendono a ben volere è un paradiso. Tutte le estati scendo giù dagli amici e devo quasi nascondermi, altrimenti tra un invito a cena e l’altro il fegato scoppia».
Non sia mai, Onor, classe ‘48, al fisico ci tiene: «Dopo Messina ho fatto due anni nei Dilettanti a Borgosesia, due nell’Oleggio e due nell’Arona, fino a tre anni fa giocavo in Promozione. Non avendo abusato di niente, il fisico è rimasto integro. Dipende dal tenore di vita, bisogna amare il proprio corpo».
Piccolo calcolo: son quarant’anni di corse dietro il pallone. «Alla resa dei conti, ho avuto la fortuna di non patire incidenti brutti. Giocavo da fluidificante, sulla fascia, e non cercavo il contrasto duro, preferivo l’anticipo e in questo modo ho evitato tanti, ma tanti rischi. Non essendo irruente, mi sono salvato le gambe, comunque nella fortuna non sono stato neanche tanto fortunato La Serie A l’ho vista e salutata. Sicuramente non ero uno all’altezza di grandi club, sono sempre stato un mediocre, avevo dei limiti fisici e ho dovuto accontentarmi. L’epoca mia era diversa da adesso, non c’era mercato, non potevi pretendere di far bene a Livorno e tornare alla Juve, se uscivi dal giro diventavi al massimo una pedina di scambio. L’altra grossa differenza riguarda la formazione: oggi si acquistano giocatori già strutturati, esperti, per fare risultato, in passato, vedi la Juve, si facevano crescere i giovani. Gentile e Cabrini, appunto. Tornando a me, penso che ho pur sempre giocato centinaia di partite in B e in C, che potevo fare di meglio».
Onor “pesa” la Juve di oggi, inevitabili i raffronti, venati di rammarico: «Un Birindelli lo tengono, e come lui altra gente mediocre, che nel gruppo gira bene. Stanno lì e con gli anni si rivalutano, magari un Birindelli può costare anche dieci miliardi, ha un mercato».
Saper distinguere e adattarsi, leggere le “lune” crescenti e calanti: è la carta in più per non affogare. L’ex bambino che faceva tribolare i genitori perché non ne voleva sapere di studiare ha dovuto riprendere in mano i libri, lo ha fatto di buona lena, al pari di tutto il resto: «Si smette e si provvede al dopo. Col calcio mi ero fatto la casettina e poco più. Sono tornato studente e sono entrato nel ramo assicurativo».
La casettina, informa la moglie Franca è a Dormelletto, davanti il lago Maggiore, dietro un bosco, «ottimo per il footing», dice Guido. «E vado in bici, gioco a tennis. Ho le mie ore di libertà, il lavoro non preclude tutto. Sto a contatto con la gente, come da giocatore». Quasi: «La vita si è fermata in un modo e continua in un altro. Non si arresta il tempo».
Non ricorda la data precisa, però «sono due anni che non metto piede su un campo». Onor ha voluto bene al pallone, forse molto più di quello che un sobrio temperamento classicamente piemontese lascia intravedere. «Ho due figli, Alessandro di ventisette anni e Simone di ventitré. Il più piccolo ha giocato nell’Arona, nel Novara e ha mollato, continua a studiare. Certi giorni gli ricordavo che aveva allenamento e se ne usciva con un “porco giuda”. Ed io, che ero già contento la mattina perché alla sera dovevo andare al campo... Nel pre-campionato con Scoglio gli ultimi giorni si lavorava otto ore, footing, ginnastica, pallacanestro, pranzo, partitella, ginnastica. Lo giuro: ci volevano due palle così».

Nessun commento: